Daniel Halévy
- associazione68
- 19 mar
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Aggiornamento: 26 mar

Era colui che diceva con grazia di Proust, suo vecchio compagno di liceo al Condorcet, che aveva “grandi occhi da orientale”. Daniel Halévy, saggista e storico, nacque a Parigi nel 1872, da una famiglia di origine ebraica tedesca. Meno poeta di quanto volesse essere, la sua giovinezza fu comunque segnata dalla Belle Époque e dalla scrittura all'interno di una rivista liceale, chiamata Le Banquet, co–fondata, tra gli altri, con Robert de Flers e Fernand Gregh, entrambi poi diventati scrittori. Questo tempo leggero, questa “piccola categoria di esseri”, lasciò un'impronta vivida sul giovane Halévy e influenzò la sua concezione della Storia così come le sue visioni politiche del dopoguerra. Una guerra che egli visse sia come una rottura che come un'impossibilità.
Nostalgico, ma desideroso di realismo, Halévy critica l'ideale cosmopolita sostenuto da Vernon Lee, che considera ormai superato. Nel 1921, all'interno della Revue internationale de Genève, pubblica un articolo carico di sottintesi, indirizzato alla scrittrice ma ancora di più alla loro amica comune, Irene Forbes–Mosse. Poco tempo prima, quest'ultima gli aveva scritto dalla Germania, confidandogli il suo desiderio di tornare in Italia, così come la sua difficoltà nell'accettare le condizioni imposte dal trattato di Versailles, che avrebbe dovuto mettere fine alla guerra, ma che ne apriva un'altra: quella delle riparazioni. Esiliata in Inghilterra dal 1914 al 1918, Vernon Lee aveva anche confidato all'amica Irene la sua attesa e la sua speranza di ritrovare Il Palmerino, la sua dimora fiorentina, ma soprattutto, e risolutamente, se stessa, gli altri, i suoi: “I am fairly well but very heartbroken and longing for Italy, my house (with you in it again!), and for the Past. Since one does not dare think of a future any longer.” (1915). Si intesse in questo scambio epistolare, in filigrana, una dimensione soggettiva dello spazio, che dice l'io, più di quanto lo contenga o lo comprenda. Si intravede una certa concezione del tempo, che non distingue il passato dal futuro, nella sua orientazione verso quest'ultimo.
La pubblicazione di Halévy sulla stampa ginevrina fu giudicata molto maldestra da Lee, tanto più per l'assenza di una menzione esplicita del nome della sua amica tedesca, Irene Forbes–Mosse, in un periodo in cui la Germania era già cancellata, anzi umiliata, dalle potenze vincitrici. La rivista stessa, esclusivamente in lingua francese, rifletteva questa volontà di restaurare un'egemonia linguistica e traduceva un'amarezza verso questo presunto “secolo d'oro”, in cui l'Europa era nelle mani della Francia. L'articolo di Halévy rivela, alla fine, attraverso la letteratura e una concezione apparentemente apolitica dello scrittore, una forma di microstoria dei rapporti di potere del dopoguerra e una crescente difficoltà nell'accordare una voce alla Germania.
In questo senso, il nostro nome, il nostro cognome, tessono il legame fondamentale che ci unisce all'altro; ma non impegnano solo la responsabilità dell'altro, ma anche la nostra esistenza. Sono interpellato, la mia esistenza è allora riconosciuta, e la mia coscienza si forma. Così, non scrivere “Irene”, secondo Lee, significava calpestare di nuovo quel poco di coscienza che la Germania avrebbe potuto avere di se stessa. Inoltre, se Halévy invoca una letteratura a margine della conflittualità politica, Lee gli ricorda delicatamente, non senza una punta di ironia, che lo stesso gesto di scrivere nella Revue internationale de Genève, allora strettamente legata al progetto pacifista e cosmopolita della Società delle Nazioni, fondata in Svizzera nel 1920, era di per sé politico. Al “rifugio dei libri” e a una rifondazione degli Stati dall'interno, voluti da Halévy, Lee oppone fermamente una visione pacifista vicina al cosmopolitismo, che esiste al di qua o al di là delle frontiere – Il Palmerino incarnando, secondo lei, un serbatoio di pace.
Secondo Sébastien Laurent, storico e professore a Sciences Po, la concezione totalizzante dell'estetica letteraria di Halévy nel dopoguerra – simile al “poema totale” di Mallarmé – costituirà una tappa preliminare nel cambiamento ideologico di Halévy, dal socialismo dreyfusardo al tradizionalismo, e persino al vichismo nell'ultimo quarto della sua vita. Un percorso che può sorprendere, ma che trova la sua origine nella storia del pensiero politico stesso. Patrice Rolland, professore di diritto, afferma che quest'uomo, appassionato di Nietzsche e della scoperta degli esseri, morto nel 1962 a Saint-Germain-en-Laye,“il suo tradizionalismo non è il rinnegamento del suo liberalismo giovanile; esprime piuttosto l'impasse e l'assenza di soluzioni per un liberalismo che non fu abbastanza politico”, o, in altre parole, che si voleva letterario. Senza dubbio è così per gli uomini che non riescono pienamente a essere poeti, al contrario di Proust, di cui lo stesso Halévy diceva che era un “uomo di mondo”.
Alan B.
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